sabato 7 novembre 2020

ESSERE VOLONTARI SOCCORRITORI 118 OGGI

 Essere volontari soccorritori 118 oggi richiede molto coraggio, tanto cuore, 
nervi saldi e una dose maggiorata di energia. 

La paura del contagio è sempre presente, non ti abbandona mai: dal momento in cui attendi la chiamata della centrale, al rientro in sede dopo un intervento o, come spesso capita, dopo più interventi.
La paura accompagna ogni tua azione colmandola di consapevolezza e attenzione, ma a volte il tuo essere prudente non basta e ogni soccorritore sa bene che il rischio è sempre presente. Ed è inevitabile chiedersi se valga la pena mettere a rischio la propria salute e, conseguentemente, quella di chi ci è vicino. E' naturale e comprensibile. 
Siamo rimasti in pochi, non immuni dal dubbio continuo sulla grave responsabilità che il servizio comporta. 
E si tratta di una domanda lecita che coinvolge l'ambito interiore individuale, ma anche il contesto in cui si sviluppa. 
Non è semplice mantenere alta la motivazione sentendosi ripetere continuamente "Ma chi te lo fa fare" o leggendo notizie fuorvianti.
Non è semplice relazionarsi con la gravità dei pazienti e con il senso di impotenza che la malattia scatena in te. 
Non è semplice accettare di non poter interagire con empatia a causa del travestimento da palombaro che ti salva la vita e che rende impossibile un dialogo prolungato, un sorriso, un contatto.
Non è semplice affrontare l'angoscia o la rabbia dei parenti di chi vai a soccorrere, né sostenere lo sguardo di terrore, rassegnazione o rabbia di chi senza più forze giace nella barella accanto a te.
Non è semplice viaggiare a sirene spiegate con il paziente collegato all'ossigeno sperando che non collassi e debba essere rianimato.
Non è semplice non poter andare in bagno, non potersi toccare, non poter bere per ore intere, arrivare all'ospedale e dover attendere il tuo turno in coda ad altre ambulanze.
Non è semplice restare gentili e pazienti e relazionarsi con i colleghi del triage ospedaliero che, sotto pressione come te, sono sfiniti dal continuo lavoro, dalla gestione ordinaria al fianco di situazioni gravi e a rischio sopravvivenza.  
Non è semplice accogliere una nuova chiamata covid quando non hai ancora finito di sterilizzare l'ambulanza e te stesso fuori dall'ospedale e sai che ti tocca ricominciare tutto da capo, senza sosta.
Non è semplice iniziare un turno di sette ore e vederlo finire dopo 12 ore.
Non è semplice dover dire alla centrale che chiama continuamente che sei già impegnato in un intervento e sentirti rispondere che non c'è nessun altro disponibile e che attende tu sia libero: così corri con la tua ambulanza come un missile impazzito da una provincia all'altra del Piemonte a sirena spiegata con la consapevolezza che sei sempre in ritardo e ogni minuto può essere importante.
Non è semplice essere al fianco dei colleghi autisti che si trovano continuamente a zigzagare tra le macchine, anche tra quelle che pensano di essere più veloci e non si fermano per lasciarti passare, ma ti tagliano la strada facendoti rischiare l'incidente.
Non è semplice gestire trasferimenti da una rianimazione di un ospedale ormai saturo a quella di un altro ospedale distante anche più di cento chilometri con paziente in ventilazione assistita, medico e infermiere: la tensione è tangibile e preghi continuamente di non trovar traffico o nebbia, di non fare incidenti, di non dover affrontare imprevisti.
Non è semplice tornare a casa a fine turno, lavare e sterilizzare tutto compreso te stesso, e ricordare il vissuto sperando di non aver commesso imprudenze negli imprevisti che ogni intervento porta inevitabilmente con sé.
Non è semplice fare i conti con lo sfinimento fisico e psicologico, con la tristezza e la consapevolezza che quanto stai vivendo è reale. 
Non è semplice fare i conti con la tua vulnerabilità e con la paura costante che ti salga la febbre.
Non è semplice guardare un telegiornale  e osservare  le manifestazioni che negano quanto stai vivendo o le prese di posizione che vanificano i tuoi sforzi.
Ecco che quella domanda che ti senti ripetere spesso:"Ma chi te lo fa fare" ti rimbomba nella testa  e ti trapana le meningi, amplificando la tua stanchezza e fiaccando la tua motivazione.
E pensi a chi lo fa per lavoro, medici, infermieri, oss, dipendenti di Croce Rossa e di tutte quelle Onlus che si occupano di soccorso:  hanno vissuto la prima ondata e ora sono immersi nella seconda e non possono che sentirsi soli in questa loro missione.
Non è semplice donare la propria vita in un mondo che non ne riconosce più il valore, dove imperano inconsapevolezza, egoismo e giudizio. 
Personalmente sono dell'idea che ognuno di noi può fare i conti solo con se stesso, ma in una relazione squilibrata le energie si esauriscono prima con inevitabili conseguenze. 
Facciamo tutti parte di una rete che a causa del Covid si è espansa oltre i confini nazionali coinvolgendo l'uomo indipendentemente dalla nazionalità, dal colore della pelle, dal sesso e dallo status sociale. 
E ogni nodo di quella rete è importante ed è responsabile della sua tenuta: ragion per cui ognuno di noi dovrebbe meditare a fondo sulla risposta alla fatidica domanda "Ma chi te lo fa fare" con un bel cambio di prospettiva. 
Non è questione di essere altruisti, ma consapevoli. 
Ognuno di noi è parte di quella rete, che gli piaccia o meno. 
Quindi se non vuoi fare nulla per gli altri perché in questo momento così difficile riesci a pensare a malapena a te stesso, fai almeno questo in modo consapevole. 
E assumiti la responsabilità della tua salute senza sminuire o giudicare l'operato di chi sta facendo del suo meglio per tenere insieme le maglie della rete di cui sei parte anche tu. 

Essere medici, infermieri, oss, dipendenti e volontari della sanità e del soccorso,
oggi più che mai
richiede molto coraggio, tanto cuore, nervi saldi e una dose maggiorata di energia.

A voi, che lavorate ogni giorno in questa situazione così stressante,
 va, con profondo rispetto, la mia gratitudine.

Donatella Coda Zabetta

Foto di Massimo Perinotto - VAPC ONLUS

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