E' naturale pensare alla paura di morire. La morte appartiene alla vita, ma non si è mai pronti ad accettare il suo arrivo.
La preparazione alla morte è per gli orientali un vero e proprio passaggio di consapevolezza, a cui viene data grande importanza (consiglio un libro molto bello: "Il libro tibetano del vivere e del morire" di Sogyal Rinpoche, edito da Astrolabio Ubaldini).
Noi occidentali ci pensiamo poco, ma rimaniamo spesso fortemente sconvolti dalla morte di chi amiamo.
La morte è una trasformazione per legge d'amore. Nulla muore, ma tutto si trasforma: per amore. La vita stessa è una continua trasformazione.
Eppure il cambiamento è qualcosa che ci destabilizza.
La paura della morte non sottende allora una paura più profonda?
La paura di vivere.
La vita è un viaggio fatto di esperienze per crescere, evolvere, conoscersi sempre più a fondo, imparare a rispettarsi e a rispettare, ad accettarsi e ad accettare, ad amarsi e ad amare.
Eppure quando il viaggio ci pone di fronte ad orizzonti inesplorati, viviamo intensamente la paura di quel passo nell'ignoto. Preferiamo la tranquillità e la stabilità degli schemi a cui siamo abituati. Preferiamo l'immobilità, la staticità della morte. Ma ne abbiamo paura senza renderci conto di come spesso ci crogioliamo in essa. Perché vivere ci spaventa. Cambiare ci spaventa.
E spesso ci abbandoniamo alla nostra paura, fuggendo quello che ci spaventa veramente per rifugiarci in quello che pensiamo di temere.
La vita è un'avventura meravigliosa. C'è tempo per la morte. Viviamo il presente con intensità, senza aspettative, accogliendo il nuovo e lasciando andare il passato. In fondo quello che è stato lo portiamo sempre con noi: come siamo oggi è grazie al vissuto di ieri. E come saremo domani è grazie al vissuto di oggi: le montagne di aspettative che la nostra mente scala non sono che una rinuncia a vivere il presente.
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