Ritengo che uno dei passaggi più difficili da superare nel percorso verso la consapevolezza sia proprio quello dell'accettazione. Vi è una ragione precisa: la mente gioca un ruolo determinante. Ed è particolarmente efficiente nel trovare giustificazioni inattaccabili a quello che fatichiamo ad ammettere con noi stessi.
Partiamo dal presupposto che, ogni qualvolta ci troviamo a fare i conti con qualcuno che ci infastidisce o ci innervosisce, l'altro non è che lo specchio di un nostro disagio. Spesse volte è così doloroso realizzarlo che neghiamo l'evidenza dei fatti. Questo in fondo, non fa che dilazionare il momento in cui dovremo divenirne consapevoli per poter stare meglio. Non è possibile rifiutare né fuggire lontano da qualcosa che ci appartiene: se lo facciamo, vivremo comunque sempre in uno stato di perenne malessere, senza per altro comprenderne a fondo le motivazioni.
Quante volte ci adattiamo a rivestire specifici ruoli, pur di non affrontare la situazione?
Pensiamo al ruolo della vittima. Sempre a lamentarsi, sempre con qualche disagio più o meno grave in corso. Sempre ad evidenziare il proprio ruolo sacrificale nell'ambito di ogni evento, seppur banale, della quotidianità.
Cosa cerca inconsciamente chi fa la vittima? Accettazione da parte degli altri.
Perché? Perché spera, attraverso un riconoscimento esterno, di accettarsi a sua volta.
Ha qualche possibilità di riuscirvi? Assolutamente no.
Come si può pensare che gli altri siano capaci di fare quello che io stesso non sono in grado di fare per me?
La vittima potrà incontrare tre tipi di persone:
1) chi la compiangerà e per un attimo la farà sentire compresa ed accettata ... ma durerà poco e lo sconforto più totale non tarderà ad arrivare, in quanto le attenzioni dell'altro non saranno mai sufficienti a mettere a tacere il suo dolore;
2) chi la porrà di fronte alla sua debolezza in assenza di giudizio e in modo empatico (le persone migliori dal punto di vista evolutivo, quelle più equilibrate, in quanto potrebbero indurla a reagire e a prendere consapevolezza del disagio) : passaggio sicuramente doloroso, ma risolutivo;
3) chi la porrà di fronte alla sua debolezza giudicandola e la farà immediatamente collassare nel tunnel più cupo dell'incomprensione, della solitudine e del dolore della non accettazione.
Non approfondisco oltre le dinamiche che portano ciascuna persona a reagire in modo diverso (lo specchio funziona alla grande da ambo le parti, dico solo questo).
Quanto esposto vale inevitabilmente anche per l'amore, la forma più totale di accettazione.
Se io per primo non amo me stesso, difficilmente saprò amare ed essere amato. Il mio sentimento sarà sempre velato dalle debolezze che mi trascino dietro e non sarà puro, ma legato alle mie mille aspettative, tese a riempire il vuoto che mi porto dentro.
Quando non mi amo o non mi accetto, non sto bene da solo.
La solitudine è un dolore lancinante. Per questo tendo a proiettare tutte le mie energie all'esterno, in attività continue o in compagnia perenne, pur di uscire; a volte pesa anche un po', non si ha voglia, non sempre ci sono amici divertenti ... ma si tratta certamente del male minore: stare a casa soli con qualcuno che non si sopporta (se stessi) è certamente peggio!!!
E la mente è abilissima a giustificare i comportamenti che scegliamo di portare avanti: il sabato sera a casa da soli è totalmente out ... la compagnia non mi piace, ma si va al messicano che adoro... ho appena comprato quello splendido abitino, devo pur sfoggiarlo ... e via di seguito.
Potremo scappare dal problema finché avremo energia, ma questo non ci farà stare meglio.
E proprio quando in preda allo sfinimento ed alla disperazione ci arrenderemo a noi stessi, avremo intrapreso il primo essenziale passo verso l'accettazione.
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